Archivio mensile Gennaio 2008

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Jacques de La Palice

Si dice lapalissiano di ciò che appare immediatamente ovvio e scontato, ed è quindi del tutto inutile affermare. L’aggettivo deriva dal nome del maresciallo Jacques de La Palice ma, contrariamente a quanto comunemente si crede, non perché avesse l’abitudine di dire ovvietà.

L’aggettivo indica qualcosa che è talmente evidente, stanti le sue premesse logiche, da risultare ovvio e scontato, se non addirittura ridicolo per la sua ovvietà. La storia di quest’aggettivo è piuttosto curiosa.

Jacques II de Chabannes, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, non fu l’autore di alcuna frase ovvia e scontata (lapalissiana). In effetti il nome deriva da una canzone intonata dagli sconfitti di Pavia (1525) il cui proposito era quello di rimpiangere il coraggio del loro comandante che in quella battaglia aveva trovato la morte.

Jacques II de Chabannes, signore di La Palice, morì durante un assedio alla città di Pavia nel 1525. Si narra che i suoi soldati, nell’illustrare il coraggio dell’amato comandante in una cantica, compissero una scelta infelice. Essi intendevano cantare (nel francese dell’epoca):

“Ahimè, La Palice è morto,
è morto davanti a Pavia;
ahimè, se non fosse morto
farebbe ancora invidia.”

Sfortunatamente, per assonanza o per l’ambiguità grafica tra s e f (che all’epoca si scrivevano in modo simile), la strofa divenne:

“Ahimè, La Palice è morto,
è morto davanti a Pavia;
ahimè, se non fosse morto
sarebbe ancora in vita.”

Dove evidentemente l’affermazione “se non fosse morto sarebbe ancora in vita” è un’ovvietà: appunto, un’affermazione lapalissiana.

Il fraintendimento sarebbe nato dal fatto che i due caratteri s ed ƒ nella scrittura del tempo, e soprattutto a stampa, differivano solo per il trattino centrale, mentre la spaziatura fra lettere e parole era spesso incerta: la frase il ferait encore envie sarebbe stata dunque letta e trascritta, ad un certo momento, come il serait encore en vie, dando origine all’equivoco e alla sfumatura di ovvietà un po’ surreale della canzone.

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Fa che il tempo dell’amore scorra come un fiume calmo che ha modo di riempire l’alveo in tutti gli anfratti.

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Carlo Emilio Gadda

Nato a Milano il 14 novembre 1893 – al n.3 [o 10?] di via Manzoni, terzo piano -, fece a Milano tutti i suoi studi fino a quelli di ingegneria. La famiglia era agiata, ma dovette guadagnarsi da vivere: il padre, Francesco Ippolito Gadda, era un industriale, ridotto in precarie condizioni economiche a causa di investimenti sbagliati (nella coltivazione del baco da seta) e delle velleità borghesi (il mantenimento di una villa in Brianza); la madre di Carlo Emilio si chiamava Adele Lehr e proveniva da una famiglia di origini ungheresi: è lei a indirizzarlo verso l’ingegneria.
Combattente nella prima guerra mondiale negli alpini (sottotenente), fu fatto prigioniero. Nel 1918 muore il fratello Enrico, aviatore, abbattuto a pochi mesi dalla fine della guerra. Aveva 21 anni. Nel 1920 consegue la laurea in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Milano.
Negli anni ’20 fece l’ingegnere, in Italia e all’estero: Argentina, Germania. Nel 1931 torna in Italia e diventa sovrintendente alla costruzione della centrale elettrica del Vaticano. Scrive all’amico Silvio Guarnieri il 5 febbraio 1932: «Finché farò l’ingegnere sarò un bruto e nient’altro che un bruto: l’ingegnere si può paragonare a un bue sotto tutti gli aspetti. E’ l’essere ineccitabile per eccellenza, si mantiene calmo, sereno. Non gli viene neanche in mente che ci sia nella vita qualcos’altro dopo gli olii lubrificanti della Vacuum […]». Si trasferì a Milano, poi nel 1940 quando lascia la professione di ingegnere e si stabilisce a Firenze dove risiedette quasi ininterrottamente fino al 1950.
Visse a Roma, dove lavorò per il terzo programma radiofonico della RAI, presso cui era stato assunto come giornalista praticante, fino al 1955.
E’ morto a Roma nel 1973.

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“Finché farò l’ingegnere sarò un bruto e nient’altro che un bruto: l’ingegnere si può paragonare a un bue sotto tutti gli aspetti. E’ l’essere ineccitabile per eccellenza, si mantiene calmo, sereno. Non gli viene neanche in mente che ci sia nella vita qualcos’altro dopo gli olii lubrificanti della Vacuum […]”

Carlo Emilio Gadda

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Ho vissuto molto o poco?
Mi è impossibile dirlo.
Camminando sono caduto col viso a terra
ho perso qualche cosa nella polvere.
Ero albero, ero mare.
I miei usignoli erano in gabbia, non lo sapevo,
i miei pesci erano nella rete.
E così, mia rosa,
la tristezza, come una pietra bianca che lava la pioggia.
E così, mia rosa,
scrivo quel che mi attraversa
e nessuno legge, nessuno ascolta…

Nazim Hikmet

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Persone mai incontrate, storie chiuse e non vissute…mi perdo in questo mare di solitudine.

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L’istante occupa uno stretto spazio
tra la speranza e il rimpianto
ed e’ lo spazio della vita.

Marcel Jouhandeau

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Non avremo mai una seconda occasione per fare una buona prima impressione.

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La leggenda del pianista sull’oceano

Tutta quella città… non se ne vedeva la fine…
La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?
E il rumore.
Su quella maledettissima scaletta… era molto bello, tutto… e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema.
Col mio cappello blu.
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino…
Primo gradino, secondo gradino.
Non è quel che vidi che mi fermò.
È quel che non vidi.
Puoi capirlo, fratello?, è quel che non vidi… lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne.
C’era tutto.
Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo.
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare.
Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu.
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni e miliardi
Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita.
Se quella tastiera è infinita non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio.
Cristo, ma le vedevi le strade?
Anche solo le strade, ce n’era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una.
A scegliere una donna.
Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di.
Morire.
Tutto quel mondo.
Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce.
E quanto ce n’è.
Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla…
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita.
Io ho imparato così. La terra…quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò.
Lasciatemi tornare indietro.
Per favore.

Danny Boodman T.D. Lemon Novecento

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La leggenda del pianista sull’oceano

Non sei fregato veramente
finchè hai da parte una buona storia,
e qualcuno a cui raccontarla

Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento

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Farò della mia anima

Farò della mia anima uno scrigno
per la tua anima,
del mio cuore una dimora
per la tua bellezza,
del mio petto un sepolcro
per le tue pene. 
Ti amerò come le praterie amano la primavera,
e vivrò in te la vita di un fiore
sotto i raggi del sole.
Canterò il tuo nome come la valle
canta l’eco delle campane;
ascolterò il linguaggio della tua anima
come la spiaggia ascolta
la storia delle onde.

Kahlil Gibran

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E sto abbracciato a te

E sto abbracciato a te 
senza chiederti nulla, per timore 
che non sia vero 
che tu vivi e mi ami. 
E sto abbracciato a te 
senza guardare e senza toccarti. 
Non debba mai scoprire 
con domande, con carezze, 
quella solitudine immensa 
d’amarti solo io.

Pedro Salinas

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Ti si sta vedendo l’altra…

Ti si sta vedendo l’altra.
Somiglia a te:
i passi, la stessa fronte aggrondata,
gli stessi tacchi alti
tutti macchiati di stelle.
Quando andrete per strada
insieme, tutte e due,
che difficile sapere
chi sei, chi non sei tu!
Così uguali ormai, che sarà
impossibile continuare a vivere
così, essendo tanto uguali.
E siccome tu sei la fragile,
quella che appena esiste, tenerissima,
sei tu a dover morire.
Tu lascerai che ti uccida,
che continui a vivere lei,
la falsa tu, menzognera,
ma a te così somigliante
che nessuno ricorderà
tranne me, ciò che eri.
E verrè un giorno
-perché verrà, sì, verrà-
in cui guardandomi negli occhi
tu vedrai
che penso a lei e che la amo
e vedrai che non sei tu.

Pedro Salinas

Se te está viendo la otra.
Se parece a ti:
los pasos, el mismo ceño,
los mismos tacones altos
todos manchados de estrellas.
Cuando vayáis por la calle
juntas, las dos,
¡qué difícil el saber
quién eres, quién no eres tú!
Tan iguales ya, que sea
imposible vivir más
así, siendo tan iguales.
Y como tú eres la frágil,
la apenas siendo, tiernísima,
tú tienes que ser la muerta.
Tú dejarás que te mate,
que siga viviendo ella,
embustera, falsa tú,
pero tan igual a ti
que nadie se acordará
sino yo de los que eras.
Y vendrá un día
-porque vendrá, sí, vendrá-
en que al mirarme a los ojos
tú veas
que pienso en ella y la quiero:
tú veas que no eres tú.

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Caos calmo

“la gente pensa a noi infinitamente meno di quanto crediamo”

Sandro Veronesi

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A te

…se l’essere umano è arrivato sulla luna…
perchè io non potrei arrivare a te?

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Amo tutto ciò che è stato

Amo tutto ciò che è stato,
tutto quello che non è più,
il dolore che ormai non mi duole,
l’antica e erronea fede,
l’ieri che ha lasciato dolore,
quello che ha lasciato allegria
solo perché è stato, è volato
e oggi è già un altro giorno.

Fernando Pessoa

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Perdonami se ti cerco così

Perdonami se ti cerco così
goffamente, dentro
di te.
Perdonami il dolore, qualche volta.
E’ che da te voglio estrarre
il tuo migliore tu.
Quello che non vedesti e che io vedo,
immerso nel tuo fondo, preziosissimo.
E afferrarlo
e tenerlo in alto come trattiene
l’albero l’ultima luce
che gli viene dal sole.
E allora tu
verresti a cercarlo, in alto.
Per raggiungerlo
alzata su di te, come ti voglio,
sfiorando appena il tuo passato
con le punte rosate dei tuoi piedi,
tutto il corpo in tensione d’ascesa
da te a te.
E allora al mio amore risponda
la creatura nuova che tu eri.

Pedro Salinas

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Gioia del sogno

Gioia del sogno,
che mai uguagliò
nessuna gioia reale!
– E che triste gioia
quotidiana questa
a cui ci adattiamo, dimenticando
l’altra, l’altra, l’altra;
che sa; ogni giorno, di non essere più che
vano seme del fiore del sogno! –

Juan Ramon Jimenez

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Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

Salvatore Quasimodo