Si dice lapalissiano di ciò che appare immediatamente ovvio e scontato, ed è quindi del tutto inutile affermare. L’aggettivo deriva dal nome del maresciallo Jacques de La Palice ma, contrariamente a quanto comunemente si crede, non perché avesse l’abitudine di dire ovvietà.
L’aggettivo indica qualcosa che è talmente evidente, stanti le sue premesse logiche, da risultare ovvio e scontato, se non addirittura ridicolo per la sua ovvietà. La storia di quest’aggettivo è piuttosto curiosa.
Jacques II de Chabannes, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, non fu l’autore di alcuna frase ovvia e scontata (lapalissiana). In effetti il nome deriva da una canzone intonata dagli sconfitti di Pavia (1525) il cui proposito era quello di rimpiangere il coraggio del loro comandante che in quella battaglia aveva trovato la morte.
Jacques II de Chabannes, signore di La Palice, morì durante un assedio alla città di Pavia nel 1525. Si narra che i suoi soldati, nell’illustrare il coraggio dell’amato comandante in una cantica, compissero una scelta infelice. Essi intendevano cantare (nel francese dell’epoca):
“Ahimè, La Palice è morto,
è morto davanti a Pavia;
ahimè, se non fosse morto
farebbe ancora invidia.”
Sfortunatamente, per assonanza o per l’ambiguità grafica tra s e f (che all’epoca si scrivevano in modo simile), la strofa divenne:
“Ahimè, La Palice è morto,
è morto davanti a Pavia;
ahimè, se non fosse morto
sarebbe ancora in vita.”
Dove evidentemente l’affermazione “se non fosse morto sarebbe ancora in vita” è un’ovvietà: appunto, un’affermazione lapalissiana.
Il fraintendimento sarebbe nato dal fatto che i due caratteri s ed ƒ nella scrittura del tempo, e soprattutto a stampa, differivano solo per il trattino centrale, mentre la spaziatura fra lettere e parole era spesso incerta: la frase il ferait encore envie sarebbe stata dunque letta e trascritta, ad un certo momento, come il serait encore en vie, dando origine all’equivoco e alla sfumatura di ovvietà un po’ surreale della canzone.
Il termine asintoto è utilizzato in matematica per denotare una retta, o più generalmente una curva, che si avvicina indefinitamente ad una curva data. Con il termine asintoto senza ulteriori specificazioni si intende genericamente una retta, a meno che dal contesto non emerga un altro significato. Quando si vuole essere più specifici si parla di retta asintotica o, più in generale, di curva asintotica.
In matematica espressioni come “avvicinarsi indefinitamente” (o l’equivalente “tendere a”) non sono definite rigorosamente se non utilizzando in modo esplicito il concetto di limite. Volendo adottare un linguaggio più conforme a quello che si impiega nello studio dei limiti si può dire che la curva A è un asintoto della curva C se comunque si fissi una distanza minima esiste un tratto non limitato della curva C che dista dall’asintoto A meno della distanza minima fissata.
In generale la curva C può intersecare anche più volte il suo asintoto A. Tuttavia ciò che rende A un asintoto di C è i fatto che C si avvcina ad A per un tratto illimitato senza mai coincidere con A, e questo a prescindere da eventuali altre occasionali intersezioni. Questo rende ragione anche della etimologia del termine, che deriva dal greco a-sym-ptōtos, dove a- ha un valore privativo, mentre sym-ptōtos è composto da sym-, “con”, e ptōtos, un aggettivo che connota ciò che “cade”. Dunque sym-ptōtos descrive ciò che “cade assieme”, ovvero ciò che “interseca”, e a-sym-ptōtos etimologicamente descrive ciò che “non interseca”, nel senso che si diceva poco fa. Volendo si può fare ricorso ad un linguaggio figurato e dire che oltre alle eventuali intersezioni finite c’è una “intersezione all’infinito” fra A e C, e che a tale intersezione ci si può avvicinare indefinitamente senza mai raggiungerla. È questa particolare “intersezione all’infinito” che rende A “asintoto” di C.
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